Le conseguenze economiche di Hamas: da Putin all’Algeria, gli effetti su gas e petrolio.
Può apparire fuori luogo parlare di economia, quando arrivano foto di ostaggi civili presi di mira come legittimo obiettivo di guerra, legati, denudati, umiliati, numerati sulla pelle. Purtroppo però neanche in questo dramma l’economia ha un ruolo secondario, anche se forse abbiamo smesso di preoccuparci del ricatto dell’energia un po’ troppo presto; ma esso era solo tornato allo stato latente, non respinto una volta per tutte.
La produzione di petrolio dell’Iran a luglio scorso è tornata a 3,3 milioni di barili al giorno, settimo Paese al mondo nel 2023. L’Iran produce circa un terzo delle quantità di Russia e Arabia Saudita, ma nell’ultimo paio di anni ha aggiunto circa un milione di barili al giorno. E’ una grandezza da tenere a mente, perché anche i tagli decretati all’inizio dell’estate scorsa dall’Opec Plus (cioè i tradizionali Paesi del cartello, più Mosca) sono esattamente di un milione di barili al giorno, sono in vigore da oltre tre mesi e arriveranno almeno fino alla fine dell’anno.
L’effetto sul petrolio: il ruolo dell’Iran
Quei tagli di produzione dell’Opec Plus sono stati dettati essenzialmente da Mohammed bin Salman e da Putin. Il tiranno di Riad è interessato soprattutto alle ricadute finanziarie di un aumento del prezzo del barile, che finanzi il suo piano di diversificazione dell’economia saudita entro il 2030. Il suo collega russo ha senz’altro anche un obiettivo politico: tenere alto il prezzo del gallone di carburante negli Stati Uniti durante tutta la campagna presidenziale del 2024, in modo che la frustrazione degli elettori si scarichi contro Joe Biden. Nel 2016 Putin aveva aiutato Donald Trump attraverso la fabbrica dei troll di Evgenij Prigozhin che invasero Facebook e Twitter; nel 2024 sembra usare mezzi più tradizionali per interferire nel voto americano. In effetti il Brent è rincarato di circa il 30% da luglio – come notiamo alla pompa di benzina anche in Italia – prima di ripiegare nell’ultima settimana.
Da oggi però bin Salman e Putin potrebbero ottenere quello che volevano, più di quanto volevano. La reazione del mercato agli attacchi di Hamas oggi sta già facendo salire il prezzo del petrolio, almeno nell’immediato. Nel trading in Asia nella notte il greggio è già salito fino a 5 dollari in più, a 89 dollari a barile. Gli investitori temono che da adesso gli Stati Uniti inizino ad applicare con più rigore le sanzioni con l’Iran, al contrario di quanto avevano fatto negli ultimi mesi proprio per permettere un aumento dell’offerta mondiale di greggio.
La catena petrolio, inflazione, tassi d’interesse
Poi diventerà determinante capire se il governo di destra israeliano, umiliato dall’attacco di sabato, estenderà la sua risposta militare agli sponsor di Hamas in Iran. Per ora non sembra probabile. Ma se accadesse – può accadere – lo choc farebbe salire il costo dell’energia, l’inflazione e ancora prima i tassi d’interesse in Occidente, con tutte le ramificazioni negative immaginabili per il debito pubblico e gli investimenti privati. L’Iran può infatti togliere dal mercato quantità di petrolio che ne farebbero esplodere i prezzi. La stessa capacità inutilizzata dell’Opec Plus – circa 2,5 milioni di barili al giorno – è inferiore alla produzione iraniana e non potrebbe supplire in caso di guerra aperta.
La questione del gas: Putin si finanzia attraverso la Turchia
Ma magari il problema fosse solo il petrolio. Negli ultimi mesi abbiamo smesso di parlare di gas naturale – mea culpa – perché si era diffusa l’idea che in Europa ci fossimo sottratti al ricatto di Putin. Forse ne abbiamo controllato le ricadute, ma il sistema resta sotto tensione. Il prezzo del gas naturale in Europa ha smesso di scendere a maggio scorso e entro settembre era già di nuovo raddoppiato attorno ai 40 euro a megawattora, il doppio dei livelli ritenuti normali prima della guerra. Chi in Europa governa i flussi del gas si sente ancora profondamente insicuro, cerca dunque di accaparrare tutta la materia prima che può, ovunque può. La prova? Nella prima settimana di ottobre – secondo i dati riportati dal centro studi Bruegel – abbiamo comprato l’80% di gas russo in più dalla Turchia, via Turkstream, di quanto ne comprassimo del 2021, prima della guerra. E questo – ovvio – è tutto denaro che va a finanziare un aumento del 67% del budget militare di Mosca a cento miliardi di euro. Va a finanziare i missili russi sui mercati di strada nei villaggi ucraini. Eppure noi europei non smettiamo di comprare anche dai russi ovunque i loro gasdotti siano ancora aperti e funzionanti, perché abbiamo paura. Abbiamo paura di non avere abbastanza energia.
Il doppio gioco di Algeri (e il peso sulle forniture di gas all’Italia)
Su questo sfondo di insicurezza, l’attacco di Hamas sta facendo emergere altre nostre contraddizioni. Lo si è avvertito sabato, quando l’Algeria ha condannato la reazione israeliana su Gaza e espresso «piena solidarietà per il popolo palestinese». È stata, con quella dell’Iran, la reazione più favorevole a Hamas in tutto il mondo. Ma questa è la stessa Algeria alla quale l’Italia si è affidata per sostituire le forniture di gas della Russia dall’inizio della guerra in Ucraina. Fra il 2021 e l’anno scorso l’import di metano in Italia dalla Russia si è più che dimezzato da 29 a 14 miliardi di metri cubi, mentre dall’Algeria è cresciuto da 22 a 26 miliardi di metri cubi. Ora il principale fornitore di gas in Italia è il Paese nordafricano più vicino a Hamas, oltre ad essere legato a Mosca da una relazione storica che prosegue attivamente in Africa subsahariana anche in questi mesi.
La lezione per l’Italia (e l’Europa)
Restiamo profondamente insicuri ed esposti. La lezione è che in questa parte sempre più pericolosa del mondo, non possiamo più permetterci di dipendere da nessun altro, se non da noi stessi. L’Europa e l’Italia devono accelerare la diversificazione più ampia possibile delle fonti di energia, sia geografica che tecnologica, soprattutto per le fonti rinnovabili.
L’Italia riaccende i riflettori sul nucleare. A Cernobbio, in chiusura del Forum Ambrosetti, il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin ha annunciato la convocazione al ministero per il 21 settembre di istituzioni e imprese per la prima riunione della “Piattaforma nazionale per un nucleare sostenibile”.
Pichetto: rendere palese l’impegno dello Stato
«Si tratta della scelta di rendere palese quello che deve essere un impegno dello Stato sulla ricerca, la sperimentazione e l’implementazione della conoscenza che abbiamo già nel settore del nucleare – spiega – e coinvolge molti attori pubblici che hanno mantenuto questa conoscenza a partire da Enea e le nostre grandi imprese».
«Siamo impegnati sulla fusione nella sperimentazione con diversi accordi a livello internazionale e poniamo il massimo della attenzione alla fissione di quarta generazione, che significa anche la valutazione degli “small reactor” che nell’arco di dieci anni potranno essere una opportunità per il Paese. Ma sarà – dice Pichetto – il prossimo governo ad occuparsi di questo».
(fonte il Sole 24Ore)